Terre rare: il nuovo petrolio delle tecnologie rinnovabili
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Le terre rare (Rare Earth Elements) sono materie prime formate da un miscuglio ossidi dai quali si estraggono gli elementi fondamentali per le nuove tecnologie. Si dividono in terre rare pesanti (HREEs) e leggere (LREEs) in base al peso atomico. Vengono chiamati così per l’onerosità economica ed energetica della loro estrazione e raffinazione, processi lunghi, energivori, idrovori e molto inquinanti. Anche perché la concentrazione dei depositi è ben inferiore rispetto a quella dei metalli principali (Fe, Pb, Al), non superando mai il 10%. Al momento la Cina, che detiene la maggior parte dei HRREs, compensa gli elevati costi di produzione risparmiando sulla manodopera.
Per la produzione dei pannelli fotovoltaici quasi la metà delle terre rare sono scarse e mal distribuite. La Cina è infatti il principale produttore mondiale del germanio (67%) e del silicio metallico (61%), secondo il report dell’European Commission. Purtroppo, l’Europa ha un tasso di dipendenza da queste risorse del 64% e non sono così facilmente sostituibili. In più rimane deludente il loro tasso di riciclo che si attesta al di sotto del 2%. Anche per le innovazioni in questo campo, se si punta ad un rendimento oltre il 20%, le terre rare rimangono fondamentali.
Con dei nuovi processi si può raggiungere un rendimento del 40%, aggiungendo uno strato drogato di elementi rari ai pannelli di silicio. Questi processi di “up/down conversion” compensano le perdite energetiche dei fotoni allargando il range di cattura delle onde elettromagnetiche. L’up converter diminuisce le perdite di trasmissione convertendo almeno due fotoni di bassa energia in fotoni con un alto contenuto energetico. Nel down converter invece i fotoni vengono sottoposti al “quantum cutting”, cioè la strategia opposta dell’up converter. Questo aumenta la disponibilità dell’irradianza solare del 32%. Per il primo processo si utilizza l’ytterbium (3+) e l’erbium (3+), e nel secondo si usa anche l’europium (3+). Tutte queste terre rare pesanti sono fornite unicamente dalla Cina con uno share del 95%.
Finora la Cina è stata il fil rouge della discussione. Con il 25-30% delle riserve mondiali, la Cina controlla il mercato delle terre rare con il suo monopolio strategico. La produzione mondiale ha raggiunto l’81% nel 2017 e ha avuto picchi storici del 97% nei primi anni 2000. I benefici economici causati dallo sfruttamento intensivo dei depositi sono però a discapito della qualità ecologica e sanitaria.
Un caso studio è la provincia cinese Jiangxi, la principale area di estrazione dei metalli rari che rappresenta il 4.4% del PIL. L’acqua usata per la raffinazione, carica di acidi e metalli pesanti, viene scaricata nei fiumi, creando un territorio impossibile da coltivare. Oppure le miniere di Baotou, nella Mongolia Interna. Lì, la situazione è talmente grave che gli agricoltori vivono nei cosiddetti “villaggi del cancro” respirando aria tossica. Già nel 2006 si verificò un disastro ambientale nello Hunan, nella Cina meridionale. Per l’estrazione dell’indio, un componente raro per i pannelli fotovoltaici, tonnellate di prodotti chimici furono riversati nel fiume Xiang.
Per questo il j’accuse d’inchiesta del giornalista Guillaume Pitron ne “La Guerra dei Metalli Rari” è un monito indimenticabile. Possibile che l’energia rinnovabile sia condannata a dipendere dall’estrazione di materie prime “sporche”?
Essendo una risorsa non rinnovabile c’è bisogno di razionalizzare la materia e allungare la vita delle tecnologie verdi. Una soluzione può essere il riciclo dei pannelli fotovoltaici, poiché è imperativo ingegnerizzare gli scarti per rallentare lo sfruttamento delle terre rare. Oppure la sostituzione del silicio metallico per una tecnologia più efficiente e pulita.
Al momento la Commissione Europea ha aggiornato il suo report per far fronte alle nuove politiche protezionistiche di Pechino. Si investe sulla ricerca di nuove materie prime, sul miglioramento del riciclo e si organizzano nuovi accordi commerciali con i rifornitori.
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