Coworking: anche l’ufficio diventa sostenibile, non solo per la condivisione degli spazi

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$Zucchero bianco, un \'killer\' invisibile$

Con il coworking l’ufficio diventa più sostenibile. Il “coworking” non è solo “un ampio spazio nel quale le persone affittano una postazione di lavoro, per risparmiare sull’affitto”. È un modo di lavorare difficilmente inquadrabile in un modello unico. La compresenza va intesa come condivisione in senso lato, più che come spartizione degli spazi.

E’ una via di mezzo tra una guida e un saggio sulle realtà esistenti nel mondo, con un approfondimento sulla rete italiana.
Da quando è nato il primo a San Francisco (nel 2006), a giugno 2013 si contavano oltre 2.300 spazi, numero sicuramente già abbondantemente superato, seguendo la tendenza a livello globale che si sta sempre più consolidando.

Oltre 900 sono situati in Nord America, 150 in Sud America, oltre 90 in Australia, in Africa siamo a quota 40. L’Europa supera di oltre 100 unità il Nord America. La capitale europea del coworking è Berlino.

È vero, i fattori distrattivi sono molti e frequenti, ma spesso, anche quando le postazioni raccolgono professionalità differenti l’una dall’altra, il progetto di uno, diventa quello di tutti. Di esempi ce ne sono tanti, per esempio “Cowomodo”, al confine tra Cordenons e Pordenone è un gruppo multidisciplinare impegnato nella ricerca, progettazione e realizzazione nei settori dell’architettura, interior design e della comunicazione,

Modelli vincenti sono i coworking verticali: The Hub (qui quello di Roma) che si occupa di innovazione sociale, oppure Talent Garden, figlio di Davide Dattoli, specializzato in innovazione di progetti digitali, scelto di recente tra i 5 progetti più innovativi a livello internazionale dal premio di riqualificazione territoriale della città di New York Manhattan, HELM2.0.